Monday, June 01, 2009

Watchmen - Onori e disonori


Siamo sempre stati abituati a vedere supereroi brillanti e mai domi nella battaglia contro il male, la cui vita privata era praticamente annullata di fronte ad uno scopo alto e onorevole. Questi tempi sono terminati, e non oggi, già da molti anni. Chi ha amato la serie di fumetti scritta da Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons non amerà i continui e significativi cambiamenti che Zack Snyder ha operato nella trasposizione cinematografica. Difatti il regista americano ha spesso operato variazioni importanti (vedasi il finale) che, immagino, abbiano fatto sobbalzare dalla sedia tutti gli appassionati, fino ad arrivare al divino Alan Moore, che ha completamente disconosciuto la produzione cinematografica, come già era successo per V come Vendetta. Il film ha decisamente molte pecche, che credo sia inutile elencare spietatamente, ma - ed è un gran bel "ma" - ci sono alcuni aspetti decisamente interessanti e che meritano di essere sottolineati, proprio perchè Snyder è riuscito a ben trasporre sulla pellicola quelle caratteristiche che facevano del fumetto qualcosa di unico.
Prima di tutto parliamo di come il regista ha dipinto i supereroi. Essi vivono nell'epoca della terza candidatura di Nixon e della vittoria americana in Vietnam. Prima di tutto non possiedono particolari superpoteri, con l'eccezione dell'iperbolico Manhattan; ma la cosa più particolare è che hanno un coscienza ricolma di malefatte, oberati dall'isteria e dal delirio di onnipotenza, o cullati da un pieno senso di indifferenza verso l'umana sorte. Sono eroi cresciuti con la letteratura psicoanalitica, magari anche coi noir americani, conoscono a perfezione la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein, applicandole non solo al mondo subatomico, ma anche al mondo "molto atomico" fatto di persone. Hanno ascoltato la musica di Dylan e degli Stones e si muovono dentro un percorso di autocoscienza collettiva che li porta a pensare di conoscere la platonica Idea del Bene, che può realizzarsi solo grazie ad un corposo sacrificio semi-nucleare, coperto da menzogne e bagnato di tantissimo sangue innocente. E già questo, che era un aspetto importante del fumetto, varrebbe il prezzo del biglietto, perchè Snyder è stato bravo nel metterlo al centro del film, continuamente rimembrato nelle orecchie e negli occhi dello spettatore, spesso anche goffamente.
Il secondo aspetto che merita un encomio è la costruzione dei titoli di testa, che scorrono ripercorrendo fedelmente la vita dei Watchmen dagli anni trenta in poi, incrociata con la storia degli Stati Uniti. Veramente un esempio di grande cinema.
Il terzo aspetto riguarda il rapporto, o per meglio dire il "non rapporto" che i supereroi hanno col mondo degli uomini. Benchè esse abbiano dedicato alla tutela ed alla salvaguardia degli esseri umani la maggior parte della loro vita e delle loro energie, essi sono completamente estranei da avere una qualche "genuina" relazione con gli uomini. Proprio l'aver svolto la loro missione di "guardiani", li ha portati ad esperire le peggiori bassezze e bruttezze dell'umanità, e ciò li ha condotti quasi ad evitare un sereno e amorevole rapporto con quel genere che proprio da loro deve essere protetto. Si trovano così nella paradossale situazione esistenziale di dover proteggere qualcuno con cui non vogliono avere nessunissimo rapporto, devono salvaguardare qualcuno che vogliono evitare (il dottor Manhattan ne è il più fulgido esempio).
Il quarto ed ultimo aspetto riguarda una riflessione complessa sul finale. Il film ci dice questo: il mondo può essere salvato solo se strategicamente vengono operate delle scelte poco nitide, che presuppongono un sacrificio importante di una fetta dell'umanità, affinchè il futuro, per gli altri, possa essere possibile. La creazione di un nemico ulteriore e più grande conduce Usa e Urss ad un accordo, che porta alla pace. Alcune vite devono essere sacrificate per la realizzazione di disegni molto più grandi. Di conseguenza quelli che apparentemente sembrano malvagi, appaiono buoni, quasi dei Salvatori dell'Umanità. Che dire su questo? Credo che io abbia unicamente riassunto un finale, un significato, che però può essere ribaltato dal ritrovamento, nell'ultimissima scena, del diario di Rorschach da parte di un giornalista, che può condurre a sollevare dal profondo la verità dei fatti che il mondo non conosce. Manca a questa mia sintesi una vera e propria riflessione su questo aspetto. Lascio al tempo, e alla comunità internauta, la maturazione di una più attenta e incisiva analisi, che ora non credo di riuscire a fare.

Friday, December 26, 2008

Un pranzo senza tempo

L'opera prima di Gianni Di Gregorio, in veste di regista, Pranzo di Ferragosto è una piccola perla da custodire e conservare, un film da rivedere ogni tanto, per provare quelle emozioni frizzanti, che non solo la prima visione suscita. L'unico lavoro di Gianni, il protagonista, è occuparsi a tempo pieno dell'anziana madre, nobile decaduta, barcamenandosi tra le difficoltà della vita che lo portano a "tirare a campare". Ed è proprio questa "situazione esistenziale" a farlo ritrovare in pieno agosto a badare a quattro anziane signore, ognuna con una storia e un modus vivendi diverso, ma ognuna unica nella propria genuina umanità.

Il povero Gianni "lavora", è il caso di dirlo, per far vivere giorni sereni e tranquilli a queste donne, relegate dalla società alla solitudine estiva. Quindi con qualche bicchiero di vino, qualcuno anche di troppo, e qualche stratagemma, decisamente geniale, Gianni riesce a regalare momenti di gioia, sorrisi e riflessioni.

Il film è divertente, emozionante, equilibrato ed assolutamente ben girato e costruito. Non è secondaria la decisione di ambientare il tutto nel periodo più calmo dell'anno, in una Trastevere arsa e deserta, il cui ritmo bene si "sposa" con le quattro signore. Tutto questo si contrappone proprio alla frenesia di tutti i giorni che invade la Roma dei "giovani". Di Gregorio cattura la parte più profonda di ognuno, affidando il ruolo delle anziane signore ad attrici non professioniste e la loro naturalezza permette al film di avvolgersi in un'aura genuina e neorealista.

Nel pressbook del film Di Gregorio, anzi Gianni, dichiara: "Figlio unico di madre vedova, ho dovuto misurarmi per lunghi anni, da solo, (moglie e figlie si erano dileguate per istinto di sopravvivenza), con mia madre, personaggio di soverchiante personalità, circondato dal suo mondo. Pur se provato, ho conosciuto e amato la ricchezza, la vitalità e la potenza dell’universo dei “vecchi”. Ma ho anche visto la loro solitudine e vulnerabilità in un mondo che cammina a passo accelerato senza sapere dove va perché dimentica la sua storia, perde la continuità del tempo, teme la vecchiaia e la morte ignorando che nulla ha valore se non la qualità dei sentimenti. Nell’estate del 2000 realmente l’amministratore del condominio, sapendomi moroso, mi propose di tenere sua madre per le vacanze di ferragosto. In un sussulto di dignità rifiutai, ma da allora mi chiedevo spesso cosa sarebbe potuto succedere se avessi accettato. Questo è il risultato. Per le attrici, dopo aver incontrato delle professioniste, ho scelto delle signore che non avevano mai recitato, prive di vizi formali, in base alla forza della loro personalità. Durante le riprese mi hanno travolto, la storia cambiava in base ai loro umori ma l’apporto, in termini di spontaneità e verità, è stato determinante. Alcune riprese le ho addirittura rubate. L’attore che interpreta l’amministratore, Alfonso Santagata, è un grande attore di teatro. Gli altri, il dottore e l’amico di Trastevere sono realmente miei amici d’infanzia. In quanto a me, ho interpretato il ruolo protagonista perché in fase di preparazione, mentre spiegavo all’equipe che occorreva trovare un uomo di mezz’età, più o meno alcolizzato, che aveva vissuto per anni con la madre, tutti i visi si sono rivolti molto seriamente verso di me".

Grazie Gianni.

Tuesday, August 12, 2008

La notte oscura del pipistrello

Chistopher Nolan ci ha regalato una perla crepuscolare dell'action movie, che rivoluziona l'immagine cinematografica che finora abbiamo avuto dell'uomo-pipistrello. The Dark Night propone una dualità continua di bene-male presente in ogni personaggio. Batman rappresenta l'eroe che non può riempire la scena manifestando la "bontà" del suo operato, è il bene che in quanto tale non può manifestarsi nella sua purezza (se puro può considerarsi, e questo sarebbe un argomento lungo da trattare), ma deve nascondersi dietro la rappresentazione pubblica del "male". E' colui che la "politica" del bene pubblico lo costringe all'oscuro lavoro che la gente non deve conoscere.
Joker (un bravissimo Heath Ledger) è il caos che deve scalzare l'ordine per affermare la sua "filosofia" oscura, non è l'avidità, la voglia di potere o fama, è il caos che utilizza la malvagità per imporsi, sfruttando i malvagi nel suo "caotico" e "preciso" progetto (quindi puro caos non è).
Benchè il film, che dipinge una Gotham City-New York violentissima (è così che deve essere altrimenti a che serve Batman), sia ricco di effetti speciali e colpi di scena, è la psicologia complessa dei personaggi a colpire, logorati dal loro compito e dalle loro responsabilità, ma allo stesso consapevoli dei loro progetti e della loro "missione". Ciò vale anche per Harvey Dent, la cui forte tempra da eroe cristallino senza maschera si sbriciola di fronte alla tragedia della perdita della sua amata, trascinandolo negli abissi della sua mente, dove trova l'ironia e l'astuzia di Joker che lo attira verso il male/caos.
Dal film escono tutti sconfitti, pronti a ricostruire o quantomeno a cambiare verso qualcosa di nuovo, che non ci è dato sapere se migliore o peggiore. E' la pellicola per eccellenza della dualità, che è presente in ognuno di noi, e che tendiamo, per istinto di sopravvivenza, a reprimere o ad esporre a seconda del "qui" ed "ora" in cui viviamo.

Sunday, May 25, 2008

L'inferno sotto casa. La Gomorra italiana


Dopo aver schiarito aspetti della provincia italiana ne L'imbalsamatore e in Primo Amore, Matteo Garrone porta alla luce il "problema" italiano per eccellenza, che già il coraggioso Saviano aveva crudentemente rappresentato nel suo best seller. Gomorra è l'Italia, non solo la provincia di Napoli e Caserta, non solo Scampia. Perchè il problema dello smaltimento dei rifiuti, dei vestiti d'alta moda griffati, della droga non sono isolabili alla Campania, ma sono un sistema di business a cui concorrono non solo i clan campani ma anche industriali, imprenditori, ecc. che da Scampia distano migliaia di chilometri.

Il film di Garrone, asciutto, netto, crudo, ci dice semplicemente tutto questo e altro ancora, dipingendo il mondo di Gomorra come un'isola maledetta lontana dalla nostra realtà, ma in verità così vicina da toccarla con le mani. Un plauso a Garrone per esser riuscito a portare sullo schermo un testo difficile, con il merito di aver mantenuto il messaggio fondamentale del libro.

Il mondo di Gomorra è un mondo che non si sceglie, che ci viene imposto e spesso nascosto, è la terra disperata in cui la gente considera normale quello che normale non dovrebbe essere. Gomorra è la terra in cui non si può essere bambini per troppo tempo, perchè presto arriva una pistola da tenere in mano, o una dose da spacciare o consumare. E' il paese della paura e del degrado, della falsità e dell'egoismo. A Gomorra non esiste solidarietà, amore, uguaglianza, chi è più forte e sta alle regole uccide e guadagna, chi è più debole e fuori dal coro finisce morto sollevato da una ruspa che ti porta all'inferno, nè migliore nè peggiore di Gomorra.
Così va il mondo, così abbiamo voluto che andasse.

Sunday, May 04, 2008

Il treno indiano


L'ultimo film di Wes Anderson Il treno per il Darjeeling si basa su una sceneggiatura semplice, anche se non sempre lineare, ma costruita intorno ad un messaggio che si coglie immediatamente, poggiandosi su dialoghi stile Tennenbaum (altro film di Anderson), quindi con una forte componente demenziale. Il pregio di questo film è quello di raccontare una storia di tre fratelli che semplicemente cercano di ritrovare il bandolo della matassa della loro vita, condizionata dalla presenza scomoda dei genitori, che influiscono sulle loro scelte esistenziali più di quanto dovrebbero.
Il tutto è accompagnato dalle immagini stupende dell'India che meno conosciamo, gestite da un'abile regia e da una fotografia stupenda. Un on the road demenziale ma a tratti profondo e intimista, che cerca di coniugare la riflessione al sorriso. Un viaggio in un'India colorata e pittoresca, autentica, a volte tragica, ma sempre vera e genuina e piena di un'umanità davvero incredibile, che spesso si scontra con l'umanità "persa" dei tre fratelli, che sembrano ritrovarla solo nel contatto con gli abitanti di un piccolo villaggio indiano, che piangono la morte di un loro piccolo componente.
Anderson si confronta ancora una volta con una famiglia problematica e confusa, piena di una noia aristocratica e da uno spleen salingeriano curato con gocce e pozioni indiane, shopping tra spezie e serpenti velenosi, e fugaci rapporti sessuali consumati frettolosamente nella toilette di un treno.
Chiude il tutto una scena finale efficace e bellissima che merita il prezzo del biglietto. Buona visione.

Sunday, March 16, 2008

No country for men



Il nuovo film dei fratelli Coen No country for Old Men, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, riprende e sviluppa tutta quell'arte (letteraria o cinematografica) che fotografa la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Un luogo difficile, fatto di violenza estrema, dove regna un'unico legame: droga e soldi (come dice uno sceriffo ad un certo punto), che svuota le vite dell'umanità necessaria ad affrontare lo sguardo degli altri.
Il film colpisce come un pugno allo stomaco, e stimola immediatamente a riflettere sui vari aspetti della "fotografia" dell'America che i registi di Fargo ci hanno già invitato più volte a fare.
L'History of Violence americana martella ormai nei film d'oltre oceano come se fosse uno degli elementi degni di essere rappresentato, non l'unico, ma il più importante, forse.
L'America sta tornando ad essere il Far West? Ha mai smesso di esserlo? Forse è questo che gli americani si chiedono ? Ma soprattutto perchè?
I Fratelli Coen mettono in scena la steresis (privazione) dell'umanità, presente solo in Tommy Lee Jones, che è l'unico a provare sentimenti, paure, attenzioni, riflessioni per e verso gli altri. Lui è l'unico non egoista in un mondo di "pericolose" monadi in battaglia che continuano la loro "normalità" sparando ad ogni essere vivente che si muove, compresi i cani.
Il deserto è un posto difficile in cui vivere, specie se non si incontra mai nessuno nè fisicamente nè nei pensieri. E' un posto impossibile in cui vivere se l'unica necessità è fare più soldi, legalmente o meno, per raggiungere un benessere che condurrà solo ad una vuota capacità d'acquisto di cose inutili, inessenziali per un "vero" benessere, che ancora nessuno di noi dimostra di aver capito

Saturday, April 07, 2007

Niente è per sempre. Il "Saturno contro" di Ozpetek


Fin da bambini ci hanno insegnato a godere dei momenti felici, perchè passano veloci, senza il tempo di poterli fissare come vorremmo nei nostri ricordi, senza il tempo di essere pienamente coscienti di quel calore che ci rapisce e ci solleva dal dolore di tutti i giorni in modo così repentino. La gioia è un bicchiere di vino gustoso, ma è solo uno e per un pasto completo non può bastare. Ma spesso il fato è ancora più beffardo perchè, come diceva Socrate, spesso il dolore e il piacere si toccano, coesistono nello stesso momento, si uniscono in tal modo da non riuscire più a distinguerli, e di quell'attimo l'unica cosa che rimane dopo è il dolore, perchè ? Semplice, perchè è più forte, perchè scava l'anima, la segna irrimediabilmente senza che si possa pensare di guarire velocemente. La gioia è veloce, fuggente, il dolore no, lui rimane, anzi preferisce rimanere, per scemare pian piano, ma con calma, senza fretta, perchè prima ci deve mettere alla prova, ci deve "cambiare" come vuole lui, prima di lasciarci ci deve ricordare la nostra finitezza, la nostra assoluta dipendenza da tutto quello che non possiamo controllare o decidere. Ed allora i sentimenti e gli altri ci aiutano a metabolizzare questa nostra vita senza equilibrio, questa esistenza piena di non controllo e sofferenza. Perchè i sentimenti hanno dei nomi, e noi possiamo identificarli, riconoscerli, ma sicuramente non possiamo darne conto se non per larghissimi tratti, proprio perchè sono sentimenti, e non sono riducibili a "ragione".
Ozpetek ci insegna tutto questo, e lo fa non con il suo miglior film, ma sicuramente con il suo film più riuscito nel messaggio che vuole lasciare allo spettatore. Il cast è di qualità, una menzione in particolare va a Pierfrancesco Favino ed Ennio Fantastichini, sicuramente ad alti livelli. Di grandissimo pregio anche la colonna sonora, assolutamente perfetta ed aderente alla storia come un collante. Il regista mostra sempre la sua bravura ed in alcune scene in modo dirompente. Ma ribadisco questo non è il suo miglior film, forse qualcuno dirà anche uno dei meno riusciti, ma colpisce e segna, non perchè ci trasmette il dolore duraturo, ma perchè ci fa ricordare che la nostra vita non è per sempre, benchè lasci il suo segno indelebile in chi vorrà e potrà ricordarci in quell'attimo di gioia che siamo riusciti a regalare a chi vogliamo bene.