Friday, March 31, 2006

A History of Violence. Una risposta a Pando



Il film di Cronenberg di qualche mese fa ha suscitato l'attenzione di un mio caro amico, che a distanza di mesi ha scritto un piccolo saggio intitolato Mystic Violence. Rivedendo "A History of Violence" di David Cronenberg . Sono quasi totalmente d'accordo con le sue impressioni. Il film lascia il bicchiere mezzo vuoto e mezzo vuoto, anche per chi ama il cinema di Cronenberg. Sicuramente note a sfavore sono la sceneggiatura un pò povera e la pessima colonna sonora, ma su alcuni punti vorrei inserire alcune considerazioni importanti sul tema trattato nel film. Non credo che la metafora della bella società americana, rappresentata della famiglia perfetta, distrutta dalla "rammemorazione" della violenza sia banale. C'è da dire che Mystic River aveva sicuramente colto più nel segno nel rappresentare come la violenza, a fondamento della società, sia continuamente mascherata e nascosta, sebbene ogni volta mostri il suo lato più oscuro in eventi ineludibilmente dirompenti. Più che parlare di banalità, la mia reazione alla visione del film è stata più che altro "ma questo lo sapevo, che mi dici in più.....?"

Ed allora il nesso violenza-ordine-sesso rappresentato nel quasi-strupro di Viggo Mortensen diviene scontato, decisamente più evocativa è la scena di Mystic River dove Lady Macbeth (al secolo moglie di Sean Penn) giustifica la violenza del marito, che restituisce l'ordine sociale e familiare, oltre che a donarsi sessualmente al Re assassino, ma difensore della famiglia e dei valori della vendetta biblica (occhio per occhio, dente per dente).

L'unico elemento che sicuramente è ben costruito nel film di Cronenberg è la trasformazione fisica, caratteriale e morale di Viggo Mortensen, cioè l'opposizione interna al suo io tra assassino-delinquente e padre di famiglia-buon cittadino. Devo dire che visivamente e filmicamente, anche grazie all'interpretazione dell'attore, i vari lati della personalità del personaggio nel loro succedersi repentinamente colpiscono lo spettatore in modo netto.

Thursday, March 30, 2006

Tsotsi - Sud Africa e presa di coscienza (redenzione?)

Il film di Gavin Hood, tratto da un romanzo di Athol Fugard, celebre drammaturgo sudafricano, pubblicato nel 1980, e premiato con l'Oscar per il miglior film straniero, racconta la storia di Tsotsi, uno dei tanti abitanti delle periferie di Johannesburg dei nostri giorni (il romanzo invece era ambientato negli anni '50). Tsotsi significa letteralmente "gangster" nel linguaggio di strada nei ghetti delle comunità di colore, la sua storia è una delle tante storie dure e vere, immerse nell'universo della criminalità e del degrado delle periferie metropolitane. Il protagonista, segnato da un'infanzia difficile, madre malata e padre alcolizzato, è il capo di una gang di ragazzi (o poco più che bambini) senza scrupoli, che non esitano a uccidere per un portafogli pieno di soldi. Paradigmatica di quanto la vita valga poco a Johannesburg è la scena in cui un signore, che ha comprato una cravatta da un ambulante, viene ucciso freddamente nella metro, solo per essere derubato del portafoglio, che è stato notato al momento del suo piccolo acquisto. Sicuramente la prima parte, in cui la rabbia e la sofferenza che scava le "anime" della piccola gang viene messa in scena, è quella che più colpisce, forse la più riuscita. Quando l'ennesima rapina ai danni di una donna della alta borghesia fa cadere Tsotsi in una crisi irrimediabilmente profonda, perchè si ritrova a fare i conti con un bambino, trovato con sorpresa all'interno della lussuosa macchina tolta alla donna (che si prende oltretutto due pallottole che la inchioderanno ad una sedie a rotelle) il film si sfilaccia un pò, perde un pò di tensione e ritmo.

Tstosi, tramite il "possesso" di questo bambino, rivive i suoi drammi infantili, si "redime" in qualche modo, ma ciò non significa che si pente dei suoi gesti, del suo modo di vivere, ma prende coscienza della sofferenza propria e di quella degli altri (la madre del bambino rapito, il "Maestro", picchiato duro da Tsotsi), che subiscono gli effetti delle sue azioni. Addirittura arriva a chiedere scusa al suo amico, ma solo perchè vede in lui la sofferenza di un'esistenza ai margini, che li accomuna e relega in un universo lontano dal mondo "normale" , un mondo di baracche e solitudine. Perchè solitudine? Perchè nella baraccopoli periferica di Johannesburg ognuno vive per sé, e non si respira l'aria di solidarietà che accomuna gli emarginati, anzi ognuno è una cellula isolata, che sfiora le vite degli altri. Questo non è un pentimento od una redenzione, ma una presa di coscienza forte di come l'emarginazione releghi la vita di questi ragazzi al di fuori di tutto, anche del concetto di "rispetto" che un appartenente della gang (sempre il "Maestro") cerca di spiegare agli altri. Bellissimo è il rapporto tra Tsotsi ed una ragazza madre, costretta ad allattare il bambino "rapito". In questo rapporto Tsotsi rompe il guscio della sua esistenza chiusa nella rabbia e nel silenzio della sofferenza, divenendo cosciente del mondo "altro" dal suo, del mondo delle "possibilità". Tutto diviene strumentale a questo processo di "presa di coscienza" del ragazzo, che filmicamente però rimane un pò astratta rispetto al contesto in cui la storia viene raccontata. Difatti alla fine si ha la sensazione di aver visto un City of God in versione diminuita, qualitativamente inferiore e meno incisivo. Nota di merito alla colonna sonora di Zola, compositore di musica kwaito, il rap rabbioso del Sud Africa.