Monday, April 24, 2006

"Immagini in movimento". Il Regista di Matrimoni di Bellocchio (di Alessandra Penna)

La trama del film di Bellocchio è solo una traccia: si può tentare di ripercorrerla, ma l'impresa non è essenziale per parlare del film, così come inessenziale è spiegare tutto di quel che accade. Un regista, alle prese con i provini per girare I promessi sposi, annoiato, chiuso, e accusato di qualcosa (forse di atteggiamenti poco ortodossi nei confronti delle aspiranti attrici - ma sarà poi vero, o sarà tutta un'invenzione di falsi amici/collaboratori?), parte alla volta della Sicilia (perché parte? Non si sa, ma non importa saperlo). Qui, stretta amicizia con un fotografo aspirante regista, cede alla lusinga di un principe senza più regno, che gli propone di girare il film del matrimonio/funerale della figlia, Bona, ceduta ad unuomo ricchissimo per salvare quel che resta dei benidi famiglia. Della bella Bona, aspirante Lucia dei Promessi sposi rivisti e corretti, legati alla figura della madre morta, Franco Elica si innamora. Non sappiamo bene come, vediamo solo il suo comportamento trasfigurato, riaffiorare in lui una vitalità persa, complice anche la cornice di una Sicilia lussureggiante, colorata e calda. Bona si sposerà ono? Fuggirà con Elica o no? Saliranno entrambi su un treno o no? Forse sì, forse no, non conta. Questo è un film dove l'immagine si sostituisce alle parole, dove la trama è fatta dalla fotografia, dai volti, dagli scenari naturali, dal muoversi della macchina da presa. Un film che trasfigura la realtà, senza mai deformarla, dove è spesso incerta la distinzione tra quel che accade realmente e quel che è sognato/immaginato. E' un film sul cinema, sul mondo del cinema (ma non si identifichi Bellocchio con il rancoroso Smamma!), ma anche sul senso del fare cinema, sulla straordinaria potenza visionaria e trasfigurante del cinema.

Sunday, April 23, 2006

Siamo l'Italia di Berlusconi. Note su Il Caimano di Moretti



Nell’ultima fatica di Moretti Il Caimano, uscito a ridosso delle più controverse elezioni della Repubblica Italiana, lo spettatore si aspetta il solito pamphlet morettiano, fatto di esibizione della vita personale dell’attore e considerazioni politiche ironicamente dispiegate su un canovaccio da commedia di alto livello. Per quanto riguarda il primo elemento lo si trova assolutamente presente nel film, Moretti, difatti, da poco separatosi dalla compagna, costruisce la storia di un regista-produttore (?) sull’orlo del fallimento, che si sta separando dalla moglie - del resto, solo per citare gli ultimi esempi, Aprile era la rappresentazione della gioia della vittoria di Prodi e della nascita del figlio Pietro e La stanza del figlio metteve in scena le paure del neopadre Nanni. Forse, bisogna dire, che Moretti dovrebbe smetterla di raccontarci la “sua vita” e raccontarci “le vite” della gente, ma questa è una mia personalissima opinione. Ma per quanto riguarda l’aspetto politico il film colpisce il segno, stupendo le aspettative di chi pensava di trovare il solito attacco al padre-padrone della politica italiana degli ultimi 15 anni, cioè Silvio Berlusconi.
Un produttore, al secolo Silvio Orlando, si trova tra le mani un’interessante sceneggiatura di un film intitolato Il Caimano ispirato alla vita di Berlusconi, scritta da un giovane regista, Jasmine Trinca. Decide, non per spirito civico o per attaccamento ad un’ideologia democratica, ma solo perché mollato dal suo unico regista con un progetto su Colombo in preparazione (Giuliano Montaldo), di cercare di realizzare il film. Ed è qui che l’intelligenza di Moretti si mostra in tutta la sua acutezza. Silvio Orlando rappresenta l’italiano medio che si è abituato all’idea di Berlusconi, indifferente alla sua figura anomala e controversa, che lo ha votato e si getta a testa bassa in un progetto solo per cercare di salvare la nave e, magari, il suo matrimonio. Viene messa in scena quindi come l’"Italietta", così la chiama il produttore polacco che finanzia il film, che ha metabolizzato completamente la figura di Berlusconi e che lascia passare superficialmente dai propri pensieri l’anomalia di un politico che ha scalato la piramide del potere, infischiandosene delle regole e della democrazia. Berlusconi è quello che ci ha fatto vedere le ballerine semi-nude, che ci ha fatto incollare ai televisori, che ha cambiato il nostro modo di vivere e pensare, e come poter attaccare un “padre” tanto premuroso, come pensare di fermarlo nella sua ascesa al potere istituzionale, come poter credere che egli non “possa” e non “debba” andare oltre?
E non possiamo non pensare che siamo assolutamente come ci descrive il produttore polacco: un popolo sempre sul fondo del baratro, che però continua a scavare senza sosta.
Ma chi può interpretare il Caimano? Naturalmente Michele Placido, il cui personaggio è il prototipo dell’attore fintamente impegnato, che richiama continuamente la grande figura di Gian Maria Volonté , mostrando al contrario la sua assoluta estraneità ad un tipo di artista così civilmente impegnato. Il personaggio di Michele Placido è l’attore “professionista”, con le sue manie e le sue fobie, ma civilmente indifferente all’impresa di mettere in scena la politica italiana degli ultimi anni.
Ma quando si pensa che tutto si stia direzionando verso una serena conclusione, Michele Placido, prima dell’inizio delle riprese, con tutte le scene e i costumi pronti, si ritira dal ruolo del protagonista, perché corteggiato da altri progetti e forse impaurito di fare una cosa più grande di lui. Allora che fa Silvio Orlando, visto che il produttore senza un attore di spicco non “caccia” una lira e quindi abbandona il progetto? Racimola tutto quello che ha (vendendo metà della sua ex casa alla ex moglie Margherita Buy) e gira solo l’ultima scena del Caimano con Nanni Moretti (che aveva rifiutato precedentemente di essere il protagonista) ad interpretare la parte principale.
Chi scrive non è un morettiano, anzi al contrario, ma sebbene il film sia per la maggior parte del tempo da considerarsi “discreto”, pieno di idee “sociologiche” interessanti, ma con un ritmo mediocre e scontato, anche se gli attori siano ognuno bravo e adatto al suo ruolo, bisogna ammettere che gli ultimi dieci minuti sono bellissimi, visivamente (e questo per i film di Moretti è quasi un miracolo) e dal punto di vista dei tempi filmici e della scrittura.
Torniamo alla storia, Orlando decide di girare l’ultima scena de Il Caimano, la sentenza del tribunale sui suoi vari crimini. La scena si sposta continuamente dall’aula di tribunale alla macchina in cui sta viaggiando nella città notturna il caimano. In tribunale si mette in scena lo scontro tra magistrati e caimano, condannato per i suoi misfatti, con scontri verbali tra lui e il pm, segni di un'opposizione irrisolta di una paese intero. Nella macchina invece egli riflette a voce alta sull’Italia, su se stesso, sulla sinistra, cogliendo, bisogna dirlo, in battute colme di significato e mai sopra le righe, il senso della nostra storia degli ultimi 50 anni.
Quando il caimano viene condannato ed esce dall’aula, osannato dalla gente - perché, come ho detto, è il padre che ha allevato una nazione per 20 anni al populismo e alla facile superficialità -, e seguito dai giudici che hanno proclamato la sua colpevolezza, insultati dalla gente, il film raggiunge il suo apice mostrando cosa siamo diventati: un popolo che crede ai venditori di fumo, e dimentica cosa significhi democrazia e coscienza civile.
In conclusione il film, benché abbia notevoli difetti, riesce a rappresentare bene l’Italia di Berlusconi, e non l’Italia contro di lui, mettendo in evidenza come egli sia divenuto un elemento necessario della nostra vita e delle nostre abitudini, talmente presente da non essere più considerato scomodo e incompatibile con la politica, come lo definiscono in tutto il mondo. In qualche modo il film proclama la vittoria mediatica di Berlusconi su un popolo che ha seguito e si è conformato al suo modo di pensare la televisione, l’editoria, la politica, e che per questo sarà indifferente al film di Moretti.


Friday, April 21, 2006

Illuminismo e dialettica "negativa". The New World of Terrence Malick




L'ultimo film di Terrence Malick The New World è da considerarsi sicuramente il proseguimento, per quanto riguarda alcune tematiche trattate che spiegheremo di seguito, di The Thin Red Line. Nel precedente film infatti il misterioso regista americana non faceva che tessere l'intricata tela del rapporto tra natura e civiltà, mostrando visivamente (e non solo), con scene che rimarranno nella storia del cinema, lo scorrere tragico della guerra in un isola del Pacifico, in pieno contrasto con la serenità e la perfezione della natura e di chi lo stadio della società civile non lo ha raggiunto, o non intende farlo. Se sicuramente questo film poteva definirsi ispirato da un “sano” panteismo spinoziano, nel più recente The New World il rapporto natura-civiltà viene arricchito notevolmente di elementi di decisa derivazione dialettica (come sostiene Lorenzo Marras) e rousseauiana.
Ma andiamo con ordine. E' inutile ripetere brevemente l'intreccio che caratterizza la pellicola di Malick, la storia in Malick è “inutile” ma è l'inteccio natura-storia da considerarsi come l'unico protagonista. Se consideriamo il cinema come, prima di tutto, "visione", nel pieno e vero senso della parola, non rimarremo da Malick (che non usa inoltre luci artificiali): immagini che mozzano il fiato, inquadrature perfette, una perfezione formale da far rabbrividire, a partire dalla prima scena, in cui sembra di rivedere The Thin Red Line: ruscello e voce narrante che inneggia a “Madre Natura”. Ed il tema è subito svelato natura-civiltà-storia, progresso, individuo-comunità. La prima parte del film è decisamente ispirata al secondo discorso di Rousseau sull'origine della diseguaglianza tra gli uomini, con alcune importanti differenze. I nativi vivono in quella che Hegel avrebbe chiamato “compiutà comunità etica”, definizione attribuita alla società greca dei tempi d'oro d'Atene, in cui gli individui non conoscono sentimenti morali “degeneratori” - invidia, superbia, gelosia - (ed è questo l'aspetto rousseauiano), ma vivono in un'armonia con la natura e con gli altri (nello stato di natura di Rousseau gli uomini sono invece soli), che abbaglia il capitano Smith, mandante e rappresentante dell'”evoluta” società civile. Stupende le scene, che ricordano il miglior Kubrick di 2001 Odissea nello Spazio, in cui i nativi odorano, osservano, sfiorano gli inglesi incontrati per la prima volta. E da questo punto in poi la storia, dialetticamente dispiegata, svolge il suo ruolo spingendo in avanti, e spazzando via quello che si lascia alle spalle, i personaggi, le loro vite, le loro coscienze, in un cambiamento continuo, che non è miglioramento, cioè quell'hegeliana elevazione della coscienza verso il sapere assoluto, ma è solo un proseguire necessario verso il futuro, scandito dalla dissoluzione e dallo spirito di sopravvivenza.
Si potrebbe pensare che Malick costruisca un banale contrasto tra nativi (stato di natura) e inglesi (società civile) evidenziando la negatività dei secondi rispetto ai primi, ma non è così. La trama e le idee messe in campo sono più complicate di quanto sembra. Difatti Pocahontas, la figlia del capo indiano spinge, aiuta gli inglesi (per amore di Smith, che ha vissuto l'esperienza totalizzante degli indiani) a sopravvivere, a “svilupparsi”. Questo gesto mostrerà nel film il suo lato autodistruttivo per la comunità indiana, per Pocahontas, ma assolutamente interno alla "necessità storica".
Allora come interpretare questo sviluppo? Il mio amico Lorenzo così lo commenta: “Per (ri)trovarsi infatti bisogna perdersi, ma (la storia) non può tornare indietro ad uno stadio inferiore: se tutto è divino allora l’apparentemente contraddittoria conciliazione di Pocahontas con quella che potrebbe apparire l’innaturale civiltà è anch’essa divina o, meglio ancora, naturale e rappresenta il necessario progresso della storia nel suo continuo alienarsi nel contrario e nella necessaria conciliazione sublativa con esso. In una impostazione dialettico/evolutiva, infatti, la contrapposizione vero (mondo della natura) falso (mando della civilizzazione europea) sembra non avere più senso, se non da una punto di vista astratto e, quindi, unilaterale”. Questo passaggio è sicuramente dialettico ma di una dialettica in cui il momento del divenire non fa mai la sua apparizione, è un necessario proseguire verso l'oltre, in cui la contraddizione non si risolve. Una dialettica che sembra somigliare più a quella negativa adorniana, che positiva hegeliana. Perché un presupposto della dialettica hegeliana è lo sviluppo qualitativamente inteso, aspetto che nella storia di Malick non ha luogo, ma la storia incessantemente prosegue il suo cammino, lontana da un'idea illuministica di progresso, ma dispiega unicamente come "necessario proseguire verso l'oltre".
Allora possiamo definire "hegeliano" il panteismo di Malick New World? Io direi assolutamente di no. Malick mette in scena il contrasto irrimediabile tra natura e civiltà che si manifesta in tutta la sua dirompente forza nella scena in cui un indiano “gironzola” sorpreso in un giardino all'italiana di una villa nobiliare inglese. Solo questa scena meriterebbe un oscar.

Monday, April 03, 2006

Truman Capote - A sangue freddo. Tra film e romanzo



Il romanzo di Truman Capote, la cui storia redazionale è raccontata dal film di Bennett Miller, iniziò l’era di quello che l’autore chiama non finction novel, romanzo basato su fatti realmente accaduti. A chi si appresta a scrivere qualcosa sul film, in cui Philip Seymour Hoffman è paurosamente bravo, tale da sembrare il clone di uno dei più geniali intellettuali dell’America del secondo dopoguerra, appare scontato concentrarsi su tutti gli elementi che conducono ad una valutazione obiettiva della pellicola. Ma appena visto il film e ragionato sui tratti caratterizzanti la sceneggiatura e le scelte di regia, non si può fare a meno di riprendere in mano quel meraviglioso capolavoro che è In cold blood (A sangue freddo). E si comprende che solo intrecciando film e romanzo si possono capire entrambi, mettendo in relazione la messa in scena dell’esperienza della scrittura di Capote e la scrittura stessa.
Tutto nasce quando un “multiple murder” avvenuto in Kansas nel novembre del 1959, in cui una tranquilla famiglia americana, i Clutter, viene barbaramente trucidata, a prima vista senza motivo. Nel romanzo Capote ricostruisce in modo cristallino e limpido sia l’atmosfera del Kansas, con le sue distese di grano e i suoi piccoli paesini (non a caso nel film alla prima lettura pubblica del libro l’autore legge le prime pagine in cui si descrivono le praterie del Kansas), sia la “perfezione” della famiglia Clutter, dotata di ogni virtù e pregio: religiosità, devozione, altruismo, astensione dai vizi.
Questo aspetto, che nel film non viene riprodotto, dà modo all’autore di sconvolgere ancor di più il lettore nel trovarsi di fronte all’assassinio, che egli non nasconde dietro la forma del “noir”, ma lo getta nella storia senza mediazioni. Difatti parallelamente alla serena vita dei Clutter e della loro cittadina Holcomb è raccontata la storia del progetto criminale di Dick Hickock e Perry Smith. Quando legge dell’omicidio Capote si precipita immediatamente in Kansas per cercare di ricostruire col suo geniale intuito la storia, e nel film si ha subito l’impressione che la partecipazione ad un evento del genere cambia gli animi, e così succederà.
La fosca notizia dell’omicidio non può che sconvolgere una serena comunità, in cui la paura e il terrore, oltre il sospetto che ognuno possa essere stato l’autore del tragico evento, prendono il sopravvento. Stupende nel libro sono le tre pagine in cui viene descritta la reazione di Myrt Clare, postina della città, che ha “esaurito” tutta la paura e il dolore con la morte del marito, e sospetta su chiunque, perché l’invidia e la malvagità delle persone è infinita e ognuno non è che un nulla, che può essere spazzato via in qualsiasi momento: «se qualcuno vuole tagliarmi la gola, gli auguro buona fortuna». Questa è l’America.

Ma chi ha ucciso i Clutter e perché? Nel romanzo la storia e l’evoluzione criminale-psicologica dei due complici diviene sempre più incalzante, benché non si comprenda, se non a fatto compiuto, perché i due malviventi abbiano deciso di derubare un casa in cui, per abitudine del signor Clutter, non ci sono mai soldi, visto che tutte le transazioni del capo-famiglia vengono fatte con assegni. Ma questo è bello scoprirlo leggendo le bellissime pagine in cui viene ricostruito il “movente” con una capacità letteraria che pochi scrittori del Novecento posseggono. Sicuramente la personalità più interessante è quella di Perry Smith, autore unico di tutti gli omicidi di casa Clutter (cosa che nel film non traspare mai), ragazzo per metà indiano vissuto nella tragedia di una famiglia distrutta dall’alcolismo della madre e dalla lontananza e incapacità di comprendere del padre. Nel film è subito evidente che l’intenzione di Capote è capire come e perché sia potuto accadere un fatto del genere, e tutto ciò si può chiarire solo entrando nelle maglie della solitudine di Perry, che è convinto di avere intelligenza e talento, che il padre, la madre, le suore, il mondo intero non hanno fatto che soffocare fin dalla nascita. E quando si ha un destino così nessuna “virtù” è una difesa.
Quando i due vengono catturati, grazie alla “soffiata” di un ex compagno di cella di Hickock (e non solo per una storia di assegni falsi come il film fa credere), il film e il romanzo si congiungono nel lasciare la stessa sensazione nella scena dell’arrivo dei due assassini al Tribunale della cittadina di Garden City. Un’atmosfera eterea, silenziosa, che nasconde lo stupore dei cittadini della piccola comunità del Kansas nel vedere in “carne” e “ossa” gli artefici di tale crudele gesto. Il Capote del grande schermo rimane basito di fronte agli occhi, persi nel nulla e pieni di vuoto, di Smith: uno sguardo da studiare, fondamentale per il suo libro. Qui inizia il supplizio del romanziere, il cambiamento radicale e lo sconvolgimento psicologico che caratterizzerà la sua vita da quel momento in avanti. Difatti, dopo la condanna unanime alla forca dei due assassini, egli si affanna a posticipare, ingaggiando avvocati su avvocati, l’esecuzione della condanna a morte. E questo egoistico prolungamento della fine (che di certo non dispiace ai condannati), funzionale per poterne scrivere un romanzo, viene assorbito “traumaticamente” nell’anima di Capote, come l’aprirsi di un vuoto immenso, che finora la sua complessa personalità e la narcisistica sicurezza di essere “geniale” aveva celato nella profondità del suo animo. Ed il film nel rappresentare il progetto egoistico di Capote mostra le sue doti migliori, perché gioca continuamente a cercare di “presentare” la “falsa” indifferenza del romanziere, che fugge invano al suo coinvolgimento, tanto da dire bugie sull’uscita del libro perfino al protagonista: Perry Smith.

Ma perché la storia dei Clutter devasta in modo così forte Capote? Nell’apprendere tramite i suoi racconti la vita, la famiglia, le disavventure, le paure, le angosce e i progetti di Perry, lo scrittore capisce che i due hanno in comune un elemento fondamentale: la stessa devastante infanzia, che nel caso di Smith, è una delle cause della sua personalità inquieta. Da ciò il romanziere si rende conto che la vita è un fatale gioco in cui ognuno cerca di dare voce alle proprie emozioni positive e negative nel modo che può (Capote con la scrittura), ma c’è anche chi si sente gettato nella solitudine e immischiato nel proprio dolore a tal punto che “crede” che far pagare a quattro innocenti la colpa della sua sofferenza sia l’unico modo per redimersi (come Smith). Perry e Truman divengono così due facce della stessa medaglia che fuggono, uno coi libri e l’altro con la violenza, il proprio dolore. La devianza che ha portato Smith a quella situazione, può essere una possibilità presente anche in lui, e questo non può che segnare profondamente l’animo di chiunque.
Quando finalmente, dopo 6 anni, i due verranno giustiziati, la vita del romanziere è distrutta, benché il frutto del suo lavoro sia un successo e un capolavoro inarrivabile.
Rimangono alcune discrepanze tra il film e il libro, che però non intaccano la qualità della pellicola. Tanto per citarne una nel film al momento dell’impiccagione è Smith che stringe la mano ad Al Dewey, il poliziotto amico dei Clutter che si è occupato del caso, invece di Hickock. Sicuramente la scelta di rendere ancora più complessa e meno cupa la figura di Smith sul grande schermo è distante dalle intenzioni espresse nel romanzo, ma ciò sembra essere funzionale all’intenzione di suscitare ancora più inquietudine nello spettatore che cerca di decifrare la figura del carnefice. Nel romanzo invece è più coerente, per come Capote ha descritto le due figure degli assassini, il fatto che sia Hickock a stringere la mano a Dewey, che alla fine è quello che li ha scovati, scoperti e messi in galera, per essere mandati alla forca. Allora ci si potrebbe chiedere perché Hickock stringe la mano a chi lo ha mandato, indirettamente, sul patibolo? Tutto si scopre nelle ultime pagine in cui egli si dichiara convinto della giustezza della pena di morte, specie in certi casi (come il loro), benché sia ovvio che cerchi ogni strada per poterla evitare, anche perché è stato Smith a premere ripetutamente il grilletto nella calma notte del novembre del 1959.
In conclusione A sangue freddo, il film come il romanzo, mostra le contraddizioni di uno scrittore che, credendo di poter svolgere il ruolo dell’osservatore equidistante dalle cose, si ritrova immischiato con la sua intelligenza e la sua scrittura nel profondo baratro dell’esistenza, la propria e quella degli altri.

Saturday, April 01, 2006

TransAmerica - Le relazioni difficili

Il Film di Duncan Tucker non è, come si potrebbe facilmente dedurre, unicamente concentrato sulla trasformazione di Bree, transessuale di Los Angeles, persona di una gentilezza e delicatezza di altri tempi, ma è un'opera che scava dentro alla possibilità dell'individuo di relazionarsi. Prima di tutto la relazione con se stessi. In una scena, che da sola vale il prezzo del biglietto, si rappresenta esattamente la situazione emotiva che caratterizza la vita di Bree. La sua operazione, scopo primario della sua vita, è condizionata dal parere di una psichiatra che è indecisa a determinare se la paziente sia pronta per il grande passo. Allora la "dolce" Bree è irrequieta e ascoltando una brano d'opera in cui un canto metafisico di un soprano leggiadro s'innalza sopra tutte le polveri del mondo, sfiora leggermente il vinile, rallentando la musica e abbassando la tonalità del canto con le sue curate mani da donna, inquadrate in primo piano. Bree è esattamente quel canto rallentato, ancora non soave e leggiadro, ancora fermato da una natura che ha ingabbiato l'animo femminile in un corpo inadatto.
E poi ci sono le relazioni con l'"altro" da sé: prima di tutto la relazione con il figlio (Toby), che Bree ha concepito nel suo passato eterosessuale. Bree, a una settimana dall'operazione che adeguerà l'anagrafe al suo animo, scopre di essere padre di un figlio difficile, ingabbiato nella sofferenza adolescenziale che lo porta a deviare verso la piccola delinquenza e la chiusura verso il mondo esterno. Il processo della loro conoscenza, svolto attraverso un viaggio nell'America di provincia, mostra l'importanza del riconoscimento, necessario affinché la vita di entrambi possa proseguire. Bree non è il mezzo-indiano che Toby sperava di avere come padre, ma rimane per i suoi modi gentili e per il suo animo limpido e chiaro il modello di genitore (padre o madre non importa) che ognuno vorrebbe avere (cosa di cui Toby (e il pubblico) si renderà conto solo alla fine). Allo stesso tempo Toby non sembra essere il figlio modello (almeno per il senso comune): è delinquentello da poco, attore porno, incline alla prostituzione, ma ugualmente Bree ha bisogno di essere riconosciuta come padre e di riconoscersi in suo figlio per poter esistere: abbiamo bisogno degli altri per poter capire noi stessi. Inoltre attraverso Toby, Bree trova il coraggio di presentarsi dalla sua famiglia, che osteggia e non riconosce la sua trasformazione (paradigmatica è la figura della madre, della cui personalità devastante rimangono tracce indelebili, come ad esempio l'alcolismo della sorella "normale" di Bree).
In secondo luogo c'è il rapporto con il "mondo" possibile degli altri. Molto bello è il legame, assolutamente "platonico" e delicato che Bree costruisce con un indiano, conosciuto per caso, che non osa spingersi al di là di qualche frase sincera e qualche dolce canzone accennata con la chitarra nelle fresche sere del deserto californiano.
In conclusione il film ha un andamento lineare e senza eccessi, senza mai mostrare giudizi morali (nè su Bree, nè sulle scelte di Toby), mostrando con equilibrio e coraggio la nostra società, in cui la necessità di costruire la propria personalità, il più corrispondente possibile al nostro animo interno, sia un processo difficile, ma allo stesso tempo imprescindibile.