Thursday, March 30, 2006

Tsotsi - Sud Africa e presa di coscienza (redenzione?)

Il film di Gavin Hood, tratto da un romanzo di Athol Fugard, celebre drammaturgo sudafricano, pubblicato nel 1980, e premiato con l'Oscar per il miglior film straniero, racconta la storia di Tsotsi, uno dei tanti abitanti delle periferie di Johannesburg dei nostri giorni (il romanzo invece era ambientato negli anni '50). Tsotsi significa letteralmente "gangster" nel linguaggio di strada nei ghetti delle comunità di colore, la sua storia è una delle tante storie dure e vere, immerse nell'universo della criminalità e del degrado delle periferie metropolitane. Il protagonista, segnato da un'infanzia difficile, madre malata e padre alcolizzato, è il capo di una gang di ragazzi (o poco più che bambini) senza scrupoli, che non esitano a uccidere per un portafogli pieno di soldi. Paradigmatica di quanto la vita valga poco a Johannesburg è la scena in cui un signore, che ha comprato una cravatta da un ambulante, viene ucciso freddamente nella metro, solo per essere derubato del portafoglio, che è stato notato al momento del suo piccolo acquisto. Sicuramente la prima parte, in cui la rabbia e la sofferenza che scava le "anime" della piccola gang viene messa in scena, è quella che più colpisce, forse la più riuscita. Quando l'ennesima rapina ai danni di una donna della alta borghesia fa cadere Tsotsi in una crisi irrimediabilmente profonda, perchè si ritrova a fare i conti con un bambino, trovato con sorpresa all'interno della lussuosa macchina tolta alla donna (che si prende oltretutto due pallottole che la inchioderanno ad una sedie a rotelle) il film si sfilaccia un pò, perde un pò di tensione e ritmo.

Tstosi, tramite il "possesso" di questo bambino, rivive i suoi drammi infantili, si "redime" in qualche modo, ma ciò non significa che si pente dei suoi gesti, del suo modo di vivere, ma prende coscienza della sofferenza propria e di quella degli altri (la madre del bambino rapito, il "Maestro", picchiato duro da Tsotsi), che subiscono gli effetti delle sue azioni. Addirittura arriva a chiedere scusa al suo amico, ma solo perchè vede in lui la sofferenza di un'esistenza ai margini, che li accomuna e relega in un universo lontano dal mondo "normale" , un mondo di baracche e solitudine. Perchè solitudine? Perchè nella baraccopoli periferica di Johannesburg ognuno vive per sé, e non si respira l'aria di solidarietà che accomuna gli emarginati, anzi ognuno è una cellula isolata, che sfiora le vite degli altri. Questo non è un pentimento od una redenzione, ma una presa di coscienza forte di come l'emarginazione releghi la vita di questi ragazzi al di fuori di tutto, anche del concetto di "rispetto" che un appartenente della gang (sempre il "Maestro") cerca di spiegare agli altri. Bellissimo è il rapporto tra Tsotsi ed una ragazza madre, costretta ad allattare il bambino "rapito". In questo rapporto Tsotsi rompe il guscio della sua esistenza chiusa nella rabbia e nel silenzio della sofferenza, divenendo cosciente del mondo "altro" dal suo, del mondo delle "possibilità". Tutto diviene strumentale a questo processo di "presa di coscienza" del ragazzo, che filmicamente però rimane un pò astratta rispetto al contesto in cui la storia viene raccontata. Difatti alla fine si ha la sensazione di aver visto un City of God in versione diminuita, qualitativamente inferiore e meno incisivo. Nota di merito alla colonna sonora di Zola, compositore di musica kwaito, il rap rabbioso del Sud Africa.

2 comments:

Anonymous said...

Bella la tua recensione! viene voglia di andare a vedere il film.

notte

Pietro

Fabrizio "Il mercante" said...

Grazie Atteone, anch'io ti ho commentato. Comunque se non l'hai visto io ti consiglio più City of God.