Monday, April 03, 2006

Truman Capote - A sangue freddo. Tra film e romanzo



Il romanzo di Truman Capote, la cui storia redazionale è raccontata dal film di Bennett Miller, iniziò l’era di quello che l’autore chiama non finction novel, romanzo basato su fatti realmente accaduti. A chi si appresta a scrivere qualcosa sul film, in cui Philip Seymour Hoffman è paurosamente bravo, tale da sembrare il clone di uno dei più geniali intellettuali dell’America del secondo dopoguerra, appare scontato concentrarsi su tutti gli elementi che conducono ad una valutazione obiettiva della pellicola. Ma appena visto il film e ragionato sui tratti caratterizzanti la sceneggiatura e le scelte di regia, non si può fare a meno di riprendere in mano quel meraviglioso capolavoro che è In cold blood (A sangue freddo). E si comprende che solo intrecciando film e romanzo si possono capire entrambi, mettendo in relazione la messa in scena dell’esperienza della scrittura di Capote e la scrittura stessa.
Tutto nasce quando un “multiple murder” avvenuto in Kansas nel novembre del 1959, in cui una tranquilla famiglia americana, i Clutter, viene barbaramente trucidata, a prima vista senza motivo. Nel romanzo Capote ricostruisce in modo cristallino e limpido sia l’atmosfera del Kansas, con le sue distese di grano e i suoi piccoli paesini (non a caso nel film alla prima lettura pubblica del libro l’autore legge le prime pagine in cui si descrivono le praterie del Kansas), sia la “perfezione” della famiglia Clutter, dotata di ogni virtù e pregio: religiosità, devozione, altruismo, astensione dai vizi.
Questo aspetto, che nel film non viene riprodotto, dà modo all’autore di sconvolgere ancor di più il lettore nel trovarsi di fronte all’assassinio, che egli non nasconde dietro la forma del “noir”, ma lo getta nella storia senza mediazioni. Difatti parallelamente alla serena vita dei Clutter e della loro cittadina Holcomb è raccontata la storia del progetto criminale di Dick Hickock e Perry Smith. Quando legge dell’omicidio Capote si precipita immediatamente in Kansas per cercare di ricostruire col suo geniale intuito la storia, e nel film si ha subito l’impressione che la partecipazione ad un evento del genere cambia gli animi, e così succederà.
La fosca notizia dell’omicidio non può che sconvolgere una serena comunità, in cui la paura e il terrore, oltre il sospetto che ognuno possa essere stato l’autore del tragico evento, prendono il sopravvento. Stupende nel libro sono le tre pagine in cui viene descritta la reazione di Myrt Clare, postina della città, che ha “esaurito” tutta la paura e il dolore con la morte del marito, e sospetta su chiunque, perché l’invidia e la malvagità delle persone è infinita e ognuno non è che un nulla, che può essere spazzato via in qualsiasi momento: «se qualcuno vuole tagliarmi la gola, gli auguro buona fortuna». Questa è l’America.

Ma chi ha ucciso i Clutter e perché? Nel romanzo la storia e l’evoluzione criminale-psicologica dei due complici diviene sempre più incalzante, benché non si comprenda, se non a fatto compiuto, perché i due malviventi abbiano deciso di derubare un casa in cui, per abitudine del signor Clutter, non ci sono mai soldi, visto che tutte le transazioni del capo-famiglia vengono fatte con assegni. Ma questo è bello scoprirlo leggendo le bellissime pagine in cui viene ricostruito il “movente” con una capacità letteraria che pochi scrittori del Novecento posseggono. Sicuramente la personalità più interessante è quella di Perry Smith, autore unico di tutti gli omicidi di casa Clutter (cosa che nel film non traspare mai), ragazzo per metà indiano vissuto nella tragedia di una famiglia distrutta dall’alcolismo della madre e dalla lontananza e incapacità di comprendere del padre. Nel film è subito evidente che l’intenzione di Capote è capire come e perché sia potuto accadere un fatto del genere, e tutto ciò si può chiarire solo entrando nelle maglie della solitudine di Perry, che è convinto di avere intelligenza e talento, che il padre, la madre, le suore, il mondo intero non hanno fatto che soffocare fin dalla nascita. E quando si ha un destino così nessuna “virtù” è una difesa.
Quando i due vengono catturati, grazie alla “soffiata” di un ex compagno di cella di Hickock (e non solo per una storia di assegni falsi come il film fa credere), il film e il romanzo si congiungono nel lasciare la stessa sensazione nella scena dell’arrivo dei due assassini al Tribunale della cittadina di Garden City. Un’atmosfera eterea, silenziosa, che nasconde lo stupore dei cittadini della piccola comunità del Kansas nel vedere in “carne” e “ossa” gli artefici di tale crudele gesto. Il Capote del grande schermo rimane basito di fronte agli occhi, persi nel nulla e pieni di vuoto, di Smith: uno sguardo da studiare, fondamentale per il suo libro. Qui inizia il supplizio del romanziere, il cambiamento radicale e lo sconvolgimento psicologico che caratterizzerà la sua vita da quel momento in avanti. Difatti, dopo la condanna unanime alla forca dei due assassini, egli si affanna a posticipare, ingaggiando avvocati su avvocati, l’esecuzione della condanna a morte. E questo egoistico prolungamento della fine (che di certo non dispiace ai condannati), funzionale per poterne scrivere un romanzo, viene assorbito “traumaticamente” nell’anima di Capote, come l’aprirsi di un vuoto immenso, che finora la sua complessa personalità e la narcisistica sicurezza di essere “geniale” aveva celato nella profondità del suo animo. Ed il film nel rappresentare il progetto egoistico di Capote mostra le sue doti migliori, perché gioca continuamente a cercare di “presentare” la “falsa” indifferenza del romanziere, che fugge invano al suo coinvolgimento, tanto da dire bugie sull’uscita del libro perfino al protagonista: Perry Smith.

Ma perché la storia dei Clutter devasta in modo così forte Capote? Nell’apprendere tramite i suoi racconti la vita, la famiglia, le disavventure, le paure, le angosce e i progetti di Perry, lo scrittore capisce che i due hanno in comune un elemento fondamentale: la stessa devastante infanzia, che nel caso di Smith, è una delle cause della sua personalità inquieta. Da ciò il romanziere si rende conto che la vita è un fatale gioco in cui ognuno cerca di dare voce alle proprie emozioni positive e negative nel modo che può (Capote con la scrittura), ma c’è anche chi si sente gettato nella solitudine e immischiato nel proprio dolore a tal punto che “crede” che far pagare a quattro innocenti la colpa della sua sofferenza sia l’unico modo per redimersi (come Smith). Perry e Truman divengono così due facce della stessa medaglia che fuggono, uno coi libri e l’altro con la violenza, il proprio dolore. La devianza che ha portato Smith a quella situazione, può essere una possibilità presente anche in lui, e questo non può che segnare profondamente l’animo di chiunque.
Quando finalmente, dopo 6 anni, i due verranno giustiziati, la vita del romanziere è distrutta, benché il frutto del suo lavoro sia un successo e un capolavoro inarrivabile.
Rimangono alcune discrepanze tra il film e il libro, che però non intaccano la qualità della pellicola. Tanto per citarne una nel film al momento dell’impiccagione è Smith che stringe la mano ad Al Dewey, il poliziotto amico dei Clutter che si è occupato del caso, invece di Hickock. Sicuramente la scelta di rendere ancora più complessa e meno cupa la figura di Smith sul grande schermo è distante dalle intenzioni espresse nel romanzo, ma ciò sembra essere funzionale all’intenzione di suscitare ancora più inquietudine nello spettatore che cerca di decifrare la figura del carnefice. Nel romanzo invece è più coerente, per come Capote ha descritto le due figure degli assassini, il fatto che sia Hickock a stringere la mano a Dewey, che alla fine è quello che li ha scovati, scoperti e messi in galera, per essere mandati alla forca. Allora ci si potrebbe chiedere perché Hickock stringe la mano a chi lo ha mandato, indirettamente, sul patibolo? Tutto si scopre nelle ultime pagine in cui egli si dichiara convinto della giustezza della pena di morte, specie in certi casi (come il loro), benché sia ovvio che cerchi ogni strada per poterla evitare, anche perché è stato Smith a premere ripetutamente il grilletto nella calma notte del novembre del 1959.
In conclusione A sangue freddo, il film come il romanzo, mostra le contraddizioni di uno scrittore che, credendo di poter svolgere il ruolo dell’osservatore equidistante dalle cose, si ritrova immischiato con la sua intelligenza e la sua scrittura nel profondo baratro dell’esistenza, la propria e quella degli altri.

1 comment:

Fabrizio "Il mercante" said...

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